Dopo un secolo dedicato a studiare le sofferenze umane, gli psicologi hanno scoperto la felicità. Purtroppo non ce n’è molta in giro, ed è per questo che se ne parla tanto.

I primi studi sulla felicità sono stati fatti negli Anni ’60, quando si comincia a capire che il boom economico non cancella le nevrosi, anzi forse le genera. Sono stati fatti degli studi dove vengono trovate delle “tecniche” per correggere gli atteggiamenti che alimentano l’infelicità: socializzare, pensare positivo, coltivare le relazioni intime ed evitare di preoccuparsi per un nonnulla sono solo alcune di esse. Ad esempio è stato chiesto a degli ansiosi di appuntare su un quaderno le loro preoccupazioni: rileggendole dopo una settimana hanno scoperto che molte di queste erano infondate e, con un po’ di esercizio, nel futuro possono imparare che non è il caso di preoccuparsi tanto. Si è anche dimostrato che sposati e conviventi sono decisamente più felici di quanti vivono da soli, ed altre ricerche confermano che felicità ed un comportamento estroverso vanno di pari passo. Dunque si può imparare ad essere felici?

Anche introversi e malinconici possono trarre piacere da un hobby, dall’amicizia e dalle relazioni umane, spesso hanno solo bisogno che qualcuno gli ricordi che ci sono cose piacevoli cui dedicare tempo e energia. E1 stato fatto un sondaggio classificando il livello di felicità di popoli diversi, e si è scoperto che i maltesi detengono la palma della felicità, mentre la Tanzania, e lo Zimbawe sono all’estremo opposto. Ma siamo proprio sicuri che quando dicono di essere felici o non felici italiani, maltesi, russi… intendono proprio la stessa cosa?

 

Cosa significa “essere felici”?

Non sempre tutti la pensano allo stesso modo riguardo il motivo che ci rende felici. Ad esempio in Italia sarebbe meglio parlare di “benessere” piuttosto che di “felicità”, in quanto ha una definizione più ampia e meno connotata. Inoltre la differenza non è solo questione di terminologia, molti psicologi americani affermano che ci sono diversi tipi di felicità, come quella pragmatica, più individualista, che studia il piacere come benessere personale. Mentre in Europa si attribuisce maggior peso allo sviluppo e alla realizzazione delle potenzialità individuali, ma all’interno di un contesto sociale.

Esiste la ricetta per la felicità?

Ci sono varie scuole di pensiero: c’è chi dedica la propria attenzione solo al piacere, chi alla soddisfazione post risoluzione di un problema, chi invece alla novità. Si è verificato infatti che, offrendo ad un gruppo di bambini un vassoio di dolcetti misti, e permettendogli di prenderne due, questi sceglievano per primo il loro preferito, poi uno diverso. Anche se le cose non sono così semplici, ci sono piaceri che una volta assaporati perdono il loro fascino; altri che non ci stancano mai, e altri ancora -come le nostre pietanze preferite! -che dobbiamo concederci di tanto in tanto se non vogliamo che perdano “sapore”.

L’importanza del “nuovo”

La novità è sicuramente un aspetto importante della felicità, ma l’elemento essenziale è l’opportunità di cimentarsi con prove sempre nuove. Ad esempio chi pratica sport estremi, si impegna per rispondere a una sfida difficile, quasi impossibile che mette in gioco tutte le sue competenze. Anche se sembra un’emozione per pochi eletti, in realtà è più diffusa di quanto si immagini, questo a difesa della felicità considerata da sempre inferiore ad altre emozioni più significative e costruttive per la vita umana, quali la paura, considerate veri e propri salvavita.

La necessità di conoscere e sperimentare cose nuove è certamente un elemento importante per la nostra specie. Forse molta dell’odierna infelicità dipende anche dal fatto che le sfide quotidiane che attiravano l’uomo delle caverne come combattere, procurarsi il cibo, conquistare una compagna, non hanno più senso nel mondo in cui viviamo oggi. Detto in altri termini, siamo programmati per desiderare cose che non ci interessano più veramente, come ricchezza e potere. Ma, soprattutto, siamo preda di un subdolo meccanismo biologico che ci rende incontentabili, in quanto i nostri cervelli non sono stati programmati per mantenere a lungo uno stato di felicità.